Gli investimenti fanno rotta sulle imprese a impatto sociale che danno benefici misurabili
Gli investimenti fanno rotta sulle imprese a impatto sociale che danno benefici misurabili
Impatto sociale. Sono queste le due parole più utilizzate del momento nel mondo del Terzo settore, che sta cercando di riformarsi. E anche in quello della finanza, che di Social Impact ha iniziato a interessarsi da un po’ di tempo, in modo più attento rispetto al passato. Tanto che nel mondo c’è chi, come l’amministratore delegato di Global Steering Group for Impact Investment, Amit Bathia, pronostica che nel 2020 questo filone attrarrà circa 300 miliardi di dollari di investimenti, il doppio di quanto succede oggi. Anche in Italia una grande quantità di istituti di credito, fondazioni e sgr, sono sempre più disposti a investire su cooperative, imprese, startup sociali e società benefit (aziende che oltre agli obiettivi di profitto, hanno finalità benefiche). Un’unica condizione è quella posta affinché le risorse vengano erogate: che i beneficiari siano in grado di misurare e dimostrare l’effetto concreto del loro operato sulla comunità di riferimento. Ma non tutti ne hanno la capacità. Molte realtà sono piccole, poco strutturate. Così, in Italia, a fronte di capitali per 210,5 milioni di euro, che potrebbero salire a 400 in tre anni, si stima che ci siano appena 627 imprese sociali pronte ad accogliere tali investimenti. A dirlo è il Social Impact Outlook, pubblicato da Tiresia, il centro di ricerca della School of Management del Politecnico di Milano. Lo studio di Tiresia Secondo i ricercatori oggi nel Belpaese solo 98 imprese in tutto, raggiungono un alto livello di investment readiness e quindi sono in grado di ricevere i capitali. «Tuttavia — spiega Mario Calderini, ordinario di Economia e organizzazione aziendale al Politecnico di Milano — esiste un’ampia platea di realtà che, se supportate potranno riuscire in futuro». Per l’esattezza ben 529 imprese, sono sulla buona strada, secondo Tiresia. Piccoli numeri, che significano che oggi meno di una realtà italiana su dieci (6,68 per cento del totale) è attraente per gli investitori. Tante altre non lo sono, per via di una limitata capacità di gestione dei marchi, delle competenze tecnologiche, della capacità strategica, per via di una gerarchia organizzativa poco strutturata. D’altro canto, i ricercatori del Politecnico, che hanno preso a campione 3753, realtà rappresentative delle 9382 imprese a impatto sociale esistenti in Italia, raccogliendo 479 questionari completi, e che hanno sentito in tutto 46 istituzioni finanziarie, solo nell’ultimo anno, hanno osservato un grande fermento e la nascita di nuovi fondi di investimento ad impatto sociale. Le Fondazioni bancarie I promotori di questi fondi sono soprattutto le fondazioni bancarie. Cariplo ha per esempio puntato in modo deciso sull’housing sociale, creando il primo fondo immobiliare etico, che ha raccolto inizialmente 85 milioni di euro da investitori pubblici e privati e ha oggi una dimensione di oltre 500 milioni di euro. Uno l’obiettivo: dare risposte all’emergenza abitativa. Sullo stesso fronte del Social Impact è impegnata anche Compagnia Sanpaolo. Ma anche soggetti diversi come la Cassa Depositi e Prestiti, Invitalia, che sono cofinanziate dal Fondo Europeo d’Investimento. Persino le principali banche italiane stanno ridefinendo le proprie strategie per includere prodotti e servizi di questo tipo. Con Intesa Sanpaolo che ha un suo specifico fondo che nel 2017 ha erogato circa 9,5 milioni di euro per sostenere progetti realizzati da enti non profit. Le risorse sono state destinate al sostegno dell’occupazione e della disabilità, al contrasto del disagio abitativo e della povertà sanitaria, alla lotta contro la dispersione scolastica e la violenza, alla prevenzione delle malattie, all’assistenza ai malati e all’inclusione sociale. Oltre l’85% degli interventi sono andati sul territorio nazionale. «Siamo esigenti ma allo stesso tempo proattivi — affermava a gennaio il presidente di Intesa Sanpaolo Gian Maria Gros-Pietro — e ci impegniamo per aiutare le organizzazioni richiedenti a dare forma ai progetti in modo che siano valutabili in funzione del loro impatto sociale. Selezioniamo i progetti e gli enti più meritevoli in modo trasparente e con regole delineate perché ci sentiamo responsabili dei fondi assegnatici e vogliamo investirli nella maniera più efficiente possibile». Riforma del Terzo settore Anche lo Stato punta a capire qual è l’efficacia concreta dell’azione delle associazioni e delle ong. Questa va misurata soprattutto se si vuole accedere ai benefici fiscali e a forme di sostegno economico. Non c’è però un obbligo. E, le linee guida individuate a livello nazionale, consentono l’autovalutazione dell’organizzazione. Anche perché in Italia, da quando qualche anno fa è stata chiusa l’Agenzia per il non profit, non ci sono soggetti terzi che possano farsi carico di un diverso tipo di misurazione. La valutazione dell’impatto sociale sarà obbligatoria solo per gli enti con entrate superiori al milione di euro. «Il bene va fatto bene», spiega Stefano Zamagni, presidente del “Tavolo sulla valutazione dell’impatto sociale presso il ministero del Welfare”, citando Aristotele. «Non basta l’intenzione. — prosegue il professore — Ecco che è dunque importante che gli enti di Terzo settore rendano conto di come raggiungono i propri obbiettivi». I modelli di misurazione sono stati resi coerenti, racconta Zamagni, con le finalità che la realtà sociale persegue: «Ad esempio, prendendo in esame lo Sroi (Ritorno sociale sull’investimento) dobbiamo sapere che è un sistema di misurazione che vale per alcuni ambiti del Terzo settore, ma per altri risulta inadeguato». Per arrivare a misurare lo Sroi, però, bisogna utilizzare valori di mercato che certe attività non ammettono. Il valore delle relazioni, che con il volontariato si generano, non è ad esempio contemplato. «Per questo — prosegue Zamagni — abbiamo sentito l’esigenza di costruire un meccanismo più elastico, adattabile e quindi efficiente rispetto allo scopo che ci siamo dati». Un mondo in movimento Molte associazioni del no profit, soprattutto quelle più grosse, si stanno già cercando di adeguare alle novità normative. Il consorzio Co&So di Firenze ha prodotto un impact report basato sui diciassette obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030. Quello che si vuol fare è leggere l’attività sociale nella sua capacità di produrre cambiamento stabile. «Non basta più dimostrarsi efficienti nella spesa, occorre essere efficaci, cioè misurare il cambiamento prodotto dalle azioni poste in essere », ammette Paolo Venturi, direttore dell’Associazione italiana per la promozione della cultura della cooperazione e del non profit (Aiccon) e direttore di The FundRaising School. «Il tema dell’efficacia — ricorda — è stato introdotto anche nelle policy delle fondazioni bancarie e in quella della Fondazione con il Sud, soprattutto per quanto riguarda il bando sulla povertà minorile». Ormai i finanziatori e donatori vogliono sapere non solo se i soldi sono spesi bene, ma anche se producono davvero impatto sociale. Perché in passato non sempre è stato così. «La rendicontazione non basta più. — afferma Venturi — E anche le fondazioni o le banche sono sensibili alla buona reputazione, guardano se quello che fai cambia davvero le cose».